Ad un cielo sordo per le stelle cieche
Ferite che sono solchi in realtà, trincee maledette ed io le uso, le sfrutto come fossero difese mi difendo con lo stesso dolore che mi distrugge – stupida, nel mio distruggermi due volte stupida nel pensare troppo e nel volere il giusto perché il giusto, il bene che penso è utopia esiste il sufficientemente ma
Avremo pena di loro, proseguiremo.
Il binario arrugginito su cui poggiano leggeri piedi in bilico senza freni, dischi rotti mentre danza lento il vento – la carezza dimenticata si posa docile ora nella gradualità del tramonto. Sono passi ora verso altri, nel tremolio – nel frammentario spegnersi delle stelle la prima foglia rinasce, impaurita – sarà la prima a morire
L’assenza. Vagare statico tra aria e pelle –
Ho perso il segno il solco delicato della pelle. Con la mano vago sfioro lo spazio – l’invisibile tra il cuscino e l’aria. L’avverto – è viva e lucida l’assenza che non conosco di un profumo mai imparato. Non c’è un sapore diverso solo il mio, tra collo e zigomi, nella notte rifugio